Per tutti i giovani che come me hanno deciso di dedicarsi alla professione di interprete, arriva prima o poi il fatidico momento in cui, terminati faticosamente gli studi, si viene ingaggiati per il primo incarico, ed ecco che spesso si presenta un fenomeno tanto fastidioso quanto comune (inizialmente pensavo che fosse solo un problema mio ma, parlando con molti colleghi alle prime armi, ho scoperto essere molto comune nelle prime giornate lavorative.) Si tratta di una sorta di “shock” iniziale, dato dall’enorme differenza tra i discorsi con cui ci facevano esercitare i nostri docenti tra le aule universitarie e gli incarichi della vita professionale. In questa fase, a ogni giovane professionista sorge spontanea una domanda: perché all’università vengono proposte situazioni così diverse da quelle che si dovranno affrontare sul lavoro? Per capirlo, ho cercato di delineare, a grandi linee, quali sono le principali differenze tra i due contesti. Le aule universitarie rappresentano l’ambiente ideale per acquisire competenze pratiche per le quali, inevitabilmente, ci si dovrà sottoporre a centinaia di ore di esercitazioni e commettere altrettanti errori, senza incorrere in conseguenze più tragiche di un brutto voto.  

Al contrario di quanto accade con un incarico lavorativo, all’università si lavora in condizioni ideali (ma non realistiche):

  – Discorsi adeguati al livello degli studenti, in termini di lunghezza e complessità – Discorsi preparati in anticipo ed esposti spesso a velocità moderata Struttura chiara e ben riconoscibile Acustica ideale Accenti e pronuncia facilmente riconoscibili e comprensibili (di solito sempre gli stessi, quelli dei docenti che leggevano sul momento o registravano in precedenza i testi scelti con cura e appositamente per noi).

In maniera praticamente speculare, una giornata di lavoro tipo, “autentica”, presenta invece spesso le seguenti caratteristiche:

  – I discorsi possono essere anche molto tecnici, la materia complessa e non di immediata comprensione – Non si ha a che fare sempre con oratori professionisti, né persone abituate a parlare in pubblico, e questo comporta tutta una serie di fenomeni che complicano l’interpretazione simultanea (frasi lasciate a metà, correzioni in corso d’opera, velocità molto elevata, e così via) Problemi di acustica (in arrivo e/o in uscita) – Oratori non madrelingua o con accenti regionali molto marcati e particolarmente ostici da decifrare È perfettamente comprensibile che qualunque neolaureato abituato a tradurre in un ambiente “ovattato” si trovi spiazzato durante i primissimi incarichi lavorativi, ed è per questo che sussiste il rischio di commettere una serie di errori che normalmente non farebbe. Ciononostante, sono convinta di non essere l’unica interprete che, pur con tutte le imprecisioni, le dimenticanze e altre sbavature delle prime simultanee (o consecutive), si è vista arrivare il cliente in cabina a fine giornata a stringerle la mano e a complimentarsi per l’ottimo lavoro svolto. Spesso sono proprio quelle prime simultanee in cui ci critichiamo duramente che ci permettono di acquisire un nuovo cliente, un nuovo collega che ci proporrà altre conferenze, nuovi contatti professionali che daranno il via alla nostra carriera.  

Discutendo con altri colleghi ho appurato che tutti, agli esordi della nostra carriera lavorativa, ci siamo posti la stessa domanda:

  Perché ci è stato insegnato per 5 lunghi anni quanto sia fondamentale riportare meticolosamente ogni singolo dettaglio, se poi nella vita reale non solo il rischio di commettere errori è molto più elevato, ma, molto spesso, non ci impedisce di venire apprezzati e reputati professionisti competenti? È una domanda che mi sono posta quando mi sono trovata di fronte a un cliente che mi ha spiazzato, dicendomi candidamente: “massì, non ti preoccupare, non c’è bisogno che tu traduca tutto tutto, fammi giusto un riassunto dei punti principali”. Di primo acchito, sembrerebbe quasi che gli insegnamenti ricevuti e interiorizzati con ore e ore di pratica quotidiana per anni remino in direzione contraria rispetto a ciò che ci chiedono o si aspettano i clienti. Eppure, col senno di poi e l’esperienza acquisita negli anni, mi sono resa conto che quel “perfezionismo” richiesto non è affatto un vezzo di professori distaccati dalla realtà, ma è di fondamentale importanza per costruirsi una carriera lunga e soddisfacente, e ora cercherò di spiegare perché.  

In sintesi, possiamo dire che questo divario è da ricondurre a quella che è “la dicotomia di fondo” che caratterizza il lavoro dell’interprete, ossia, l’enorme abisso che separa il mercato delle Istituzioni (ONU e UE) e il cosiddetto mercato privato.

  Innanzitutto mi ricollego a quello di cui parlavo prima, ossia i discorsi ben scritti, ben strutturati… e ben lontani dal lavoro “vero”. A questo proposito non possiamo dimenticare qual era in origine la funzione delle scuole interpreti, specie quelle istituite nel secondo dopoguerra: formare interpreti professionisti a cui i capi di Stato europei potessero affidarsi e tramite cui potessero comunicare per iniziare a costruire una nuova Europa. Formare figure all’altezza del grande progetto di costruire una Comunità Economica Europea. Dopo oltre 60 anni, il progetto europeo ha subito innumerevoli cambiamenti, si è evoluto, si è allargato, ha cambiato nome, ma la sua necessità di interpreti non è diminuita. Al contrario: con 24 lingue ufficiali, le istituzioni europee rappresentano al giorno d’oggi il maggior datore di lavoro per interpreti a livello mondiale. Un datore di lavoro prestigioso a tal punto da spingere ogni anno centinaia di giovani da tutta Europa ad affrontare il relativo test di accreditamento, ossia l’esame da superare per poter lavorare regolarmente presso la Commissione Europea, il Parlamento Europeo e la Corte di Giustizia.  

Il test di accreditamento è costituito da discorsi in simultanea e consecutiva ben strutturati, a velocità moderata ed esposti da oratori madrelingua… tutte caratteristiche che combaciano con il primo elenco esposto sopra.

Aggiungiamo anche il fatto che la giuria non è composta da clienti che puntano più che altro alla resa dei contenuti (anche in forma semplificata o sintetizzata) più che alla forma, ma di interpreti funzionari, che giudicano l’accuratezza delle informazioni, la coerenza della traduzione e le tecniche applicate dal candidato. Una performance sufficiente o accettabile non è pertanto sufficiente per lavorare alle istituzioni; si deve puntare all’eccellenza, proprio per la delicatezza del contesto in cui operano, dei temi che vengono affrontati e del fatto che, checché se ne dica, in politica la forma spesso è sostanza (non a caso, l’arte della retorica, le tecniche di persuasione e argomentative sono nate proprio nell’Antica Grecia, in cui rappresentavano l’arma vincente per scalzare gli avversari politici). Tornando a parlare di servizi linguistici sul mercato privato, c’è un altro aspetto che ritengo opportuno sottolineare: se è vero che il livello di precisione richiesto dalle istituzioni europee (che passa dalla dizione, alla necessità di mantenere un registro molto elevato, a tratti aulico, all’esigenza di tradurre OGNI singolo aggettivo nel modo più preciso e calzante possibile, al divieto di iniziare frasi che poi non vengono chiuse o all’assoluta intolleranza nei confronti degli anacoluti e delle dislocazioni) non è invece richiesto sul mercato privato, è altrettanto vero che è nostro compito far funzionare la comunicazione come se non ci fossero barriere linguistiche.  

È nostro dovere cercare continuamente la perfezione, in modo che il cliente senta di potersi affidare a noi in tutta tranquillità.

  Per questa ragione, ogni interprete serio, degno di questo nome, chiederà sempre al cliente il rispetto di una serie di “condizioni di incarico”, che vanno da quelle più “scontate”, come la presenza di cabine, se il servizio richiesto è una simultanea, alla possibilità di stare seduti, nel caso in cui invece sia prevista un’interpretazione consecutiva con presa di appunti, a quelle meno intuitive, come la necessità inderogabile di lavorare fianco a fianco con un collega per le simultanee dalla durata superiore ai 60 minuti, o la necessità di ricevere quanto più materiale possibile (scaletta dei relatori, rassegne stampa, presentazioni power point etc.) per poter studiare, (sì, l’interprete non smette MAI di farlo!) e prepararsi al meglio. In un paese dove non esiste un albo professionale e dove tutti possono improvvisarsi interpreti, l’eccellenza è il mezzo migliore per distinguersi dalla massa e per poter instaurare rapporti di lavoro duraturi e basati sulla stima reciproca. Forse non raggiungeremo mai la perfezione, a cui forse può ambire solo la traduzione scritta, ma come scrisse Norman Vincent Peale: “Shoot for the moon. Even if you miss, you’ll land among the stars”.  
 

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