Autore: Martina Pozzi
Traduction en français: Claudia Vona

 

Da interprete e traduttrice amo le lingue fin da quando ero bambina; al contrario di quanto si potrebbe pensare, però, la prima lingua straniera con la quale mi sono rapportata non è stato l’inglese alle elementari, bensì il dialetto dei miei nonni, il dialetto brianzolo.

Con i miei genitori era normale parlare e sentir parlare italiano, mentre i nonni conversavano in dialetto anche con me. Nonostante ciò, non ho mai percepito fino in fondo questa diversità come un ostacolo, anzi, fin da piccola mi sono impegnata per superare questa barriera linguistica provando a imitare quelle vocali così strane e ad imparare piano piano il significato di quelle parole a volte così diverse da quelle che leggevo nei libri o ascoltavo in tv.

 

È stato solo crescendo che ho cominciato a comprendere che il dialetto, anzi che tutti i dialetti, sono proprio come una lingua straniera, con il loro bagaglio culturale, la loro storia, le loro influenze, i loro termini.

 

Nel dialetto comasco, ad esempio, esistono moltissime parole legate alla pesca, che non ritrovo nel dialetto brianzolo perché in Brianza non si pesca, per citare due dialetti che conosco bene. So per certo che il dialetto calabrese, per lo stesso motivo, presenta una moltitudine di lemmi legati alla raccolta delle olive; chiaramente nei dialetti dell’area milanese ciò non si verifica.

Il mio articolo di oggi vuole concentrarsi proprio sull’aspetto linguistico dei dialetti, in particolare su un dettaglio che ho colto solo nel momento in cui ho iniziato a studiare le lingue straniere propriamente dette, ossia quanto alcuni aspetti dei nostri dialetti assomiglino ad alcune delle suddette lingue.
Tutti sappiamo che l’Italia, nei secoli, ha subito le influenze di diverse popolazioni; solo chi conosce almeno un dialetto e ha studiato qualche idioma straniero, però, sa che questi popoli hanno lasciato le loro tracce nella lingua delle popolazioni a loro assoggettate.

Questa consapevolezza è maturata in me a partire dal dialetto che considero quasi una seconda lingua madre (a proposito, hai letto il nostro articolo sul bilinguismo?), ossia il dialetto brianzolo dei miei nonni, che utilizza moltissimi termini presi in prestito dal francese.

Da noi la mela è “ul pòmm”, chiaramente derivato dalla parola pomme; sempre di origine francese è il nostro modo di chiamare la patata, “ul pòmm de tera” (l’originale è pomme de terre), oppure il tappo (bouchon in francese, “büscion” in brianzolo) o il sedano (céleri in francese, “sèler” nella mia area). Ci sono addirittura termini che il mio dialetto ha assorbito tali e quali dal francese: ad esempio l’uovo, “œuf”, si chiama così sia in Brianza che in Francia.

 

Il dialetto brianzolo utilizza anche alcune espressioni direttamente derivate dalla lingua dei nostri cugini d’Oltralpe:

 

penso a “ves dré a (fà)” dal francese être en train de (faire), per indicare il fatto che stiamo facendo qualcosa (il verbo che indica l’azione che stiamo compiendo è tra parentesi in entrambi casi).

Anche l’occupazione spagnola di cui narrano “I Promessi Sposi” ci ha lasciato i suoi retaggi linguistici, ad esempio con l’espressione “sütà/ sugütà a” (varia a seconda delle zone, ma l’originale è sempre il verbo spagnolo seguir nell’accezione in cui indica il continuare a fare un’azione). Interessante, invece, la somiglianza del brianzolo “pèrsich”, la pesca, con il tedesco Pfirsich.

Anche Milano, il cui territorio è sempre stato legato a doppio filo al nostro e che ha subito le stesse dominazioni, rivela influenze simili nel suo dialetto. Una parola interessante è il termine “articiòc”, i carciofi, dal francese artichauts.

 

Siccome tutta l’Italia ha subito la presenza di potenze straniere, le stesse somiglianze si riscontrano anche nel resto del Bel Paese, con il francese o con altre lingue; addirittura ci sono parole che potrebbero derivare da entrambe.

 

Il siciliano, ad esempio, ha subito sia l’influsso francese che, in tempi più recenti, quello spagnolo, ed è ricco di riferimenti ad entrambi gli idiomi. Il verbo “travagliare”, lavorare, è simile sia al francese (travailler) che allo spagnolo (trabajar); “anciova” o “anciuovu”, a seconda delle zone della Trinacria, ricordano sia lo spagnolo anchoache il francese anchois (l’acciuga).

Come già per il dialetto brianzolo, anche il siciliano ha preso in prestito il francese per chiamare le mele: i “puma”, secondo i siciliani. Di spiccata origine spagnola è invece il termine siciliano “tuvagghia” (dallo spagnolo toalla, asciugamano).

Si pensi poi al verbo vedere in spagnolo, che vede il complemento oggetto preceduto da una “a” se si tratta di una persona. Questa costruzione è stata interiorizzata da molti dialetti meridionali, che l’hanno italianizzata (“oggi ho visto a mamma”, si sente ad esempio dire).

Anche il calabrese risente dell’occupazione spagnola, come si può notare dal lemma “rascare”, simile allo spagnolo “rascar”, grattare. È proprio in questo dialetto che troviamo anche una parola curiosa: “milun’e acqua”, l’anguria, che richiama la costruzione del corrispettivo inglese “watermelon”.

C’è poi il caso forse unico della parola ciliegia, che in molti dialetti richiama sia lo spagnolo “cereza” sia il francese “cerise”: “ciras” in napoletano, “scirès” in brianzolo, “cerasa” in calabrese.

 

Quindi, nonostante l’Italia sia un Paese libero ed unito da quasi 160 anni, i dialetti che costellano il nostro territorio testimoniano ancora in prima persona l’influenza linguistica che i secoli di occupazione straniera ci hanno lasciato.

 

Gli esempi che ho portato sono sicuramente limitati, ma rendono bene la portata del fenomeno; a volte i legami sono così forti da portare a chiederci se sia la lingua europea ad aver influenzato quella locale o viceversa.

Non tutti hanno la fortuna di conoscere almeno un dialetto, perché non tutti sono cresciuti imparandolo quasi contemporaneamente all’italiano. C’è chi comprende il dialetto dell’area in cui vive ma non lo parla, c’è chi si è trasferito in un’area diversa dello Stivale e comprende (e magari parla) ancora e solo quello di origine, c’è chi ne comprende magari più di uno.

Il mio invito per tutti è quello di non disperdere il patrimonio linguistico e culturale di cui queste lingue locali sono portatrici, senza derubricarle a “lingue di serie B”.
Non solo per motivi affettivi, ma anche perché a mio parere i nostri meravigliosi dialetti possono essere una buona base di partenza per studiare una lingua straniera; giocando sulle somiglianze e le assonanze con il proprio dialetto, imparare una nuova lingua potrebbe essere più semplice, divertente e stimolante del previsto.

Oltre al fatto che chi ha nonni anziani mi comprenderà: senza dialetto, come si fa a capirli e a farsi capire?