Autore: Claudia Vona
 
 
Fin da quando ero piccola tutti mi hanno sempre detto che avrei dovuto fare l’insegnante; sarà forse per la mia naturale predisposizione ad aiutare gli altri o magari perché da bambina preparavo esercizi di lettura e scrittura da far fare a mio fratello e ai suoi amichetti quando giocavamo.
Eppure, la mia classica risposta a chiunque mi suggerisse di intraprendere la carriera dell’insegnamento è sempre stata:
“non finirò mai a fare l’insegnante”.
 
Consideravo l’insegnamento qualcosa di statico e poco stimolante, insomma – secondo la mia concezione dell’epoca – l’insegnante passa tutta la sua vita a spiegare instancabilmente gli stessi concetti e le stesse nozioni, basta aprire un libro di grammatica e dettare qualche esercizio e il gioco è fatto. No, decisamente non mi sembrava nulla di allettante.
 
Certo, poteva essere un lavoretto secondario fatto così, per arrotondare. Ed è iniziato proprio tutto in questo modo: qualche lezione privata ai tempi del liceo, corsi all’interno di associazioni culturali, corsi di italiano per stranieri… con il tempo insegnare è diventato parte della mia quotidianità e ora non posso farne a meno, oltre che un lavoro si è rivelata essere una vera e propria passione. 

 

Trovo che insegnare arricchisca moltissimo dal punto di vista personale e professionale.

 
Si stringono rapporti con decine di persone che provengono dagli ambienti più disparati, si è sempre stimolati a fare un lavoro di ricerca sui contenuti e sui metodi più efficaci da adottare per accontentare e rispondere ai bisogni degli allievi.

E nulla di tutto questo può essere paragonato alla gratitudine: credo che gli insegnanti siano in assoluto la categoria di lavoratori che riceve il maggior numero di regali e non parlo solo dei disegni dei bambini, dei bigliettini di ringraziamento o dei regali a fine corso.
 
Parlo soprattutto di quando qualcuno ti dice “Pensa che prima del tuo corso odiavo il francese” oppure “Pensavo che non sarei mai riuscito a imparare una lingua straniera”.   

 

Ma forse vi starete chiedendo: si può conciliare l’insegnamento con la professione dell’interprete o del traduttore?

 

Non è una perdita di tempo passare le giornate a preparare fotocopie ed esercizi? Esistono dei veri e propri benefici nell’esercitare queste due professioni contemporaneamente? 

Ecco quali sono, secondo la mia esperienza, le risposte a queste domande. 
 
Insegnare implica senz’altro una serie di competenze trasversali, che vanno ben oltre la conoscenza della materia in sé. Una di queste è la pazienza.
Avere a che fare ogni giorno con bambini, ragazzi o adulti che recepiscono una nozione per la prima volta – nozione che per noi può essere davvero scontata come la -s alla terza persona singolare del presente in inglese, o il fatto che in francese il numero di lettere pronunciate in una parola sia inversamente proporzionale a quelle scritte – può richiedere molto più tempo del previsto.
 
Non tutti gli allievi sono uguali, gli adulti che imparano una lingua straniera per la prima volta, ad esempio, sono in assoluto quelli che fanno più fatica ad assorbire e memorizzare i concetti.
Dunque, non bisogna dare nulla per scontato. E pertanto non bisogna spazientirsi.
 
Ricordo che durante una lezione di inglese in un corso di formazione per receptionist ho spiegato a cosa servisse il genitivo sassone per ben 90 minuti: un’impresa titanica!
 
Bene, questo atteggiamento di disponibilità e pazienza si rivela fondamentale ogni volta che si ha a che fare con un cliente dalle richieste particolari (per saperne di più, leggete il compendio del cliente) a cui bisogna spiegare per filo e per segno quali siano le diverse tecniche di interpretariato, quali strumenti siano necessari per ogni tecnica, perché la quotazione del preventivo sembra sempre troppo alta.

 

Per noi addetti ai lavori queste nozioni sono trite e ritrite, ma a chi non è del settore possono sembrare concetti astrusi, ed ecco quindi che entrano in gioco la pazienza e la gentilezza del docente che spiega la regola in modo chiaro e minuzioso. 

 
Esiste però un beneficio addirittura maggiore.
 
Ogni corso, ogni classe ha le proprie esigenze e peculiarità, il proprio programma da seguire; questo implica una fase iniziale di ricerca e preparazione del materiale che non fa altro che arricchire il bagaglio linguistico e culturale del docente.
Una manna dal cielo per un interprete o un traduttore, che per definizione è una persona curiosa e soprattutto che passa la maggior parte delle ore di lavoro a eseguire ricerche e creare glossari.

 

Ogni vocabolo, ogni nozione, ogni concetto è un bene prezioso, un investimento che prima o poi darà il suo frutto. 

 
Lo scorso anno ho preso parte a un progetto di potenziamento di inglese in una scuola elementare.
 
Il tema centrale del progetto era il volo e le migrazioni dei volatili. Ovviamente all’inizio ho storto un po’ il naso quando mi è stata proposta una tematica simile; non mi sembrava affatto interessante e il lavoro di ricerca che ho dovuto fare all’inizio non è stato dei più semplici: non sapevo nulla della migrazione della ghiandaia azzurra da Terranova al Texas!
Eppure ho registrato meticolosamente nei miei glossari tutto quello che ho appreso nel mio lavoro di ricerca, proprio come se mi stessi preparando a una conferenza o a un lavoro di traduzione, convinta che prima o poi tutto tornerà utile. 
 
E nonostante la mia esperienza – come insegnante e come interprete – sia piuttosto breve, mi è capitato che questo accadesse.
All’inizio di quest’anno ho tenuto un corso di inglese aziendale in una società che si occupa di logistica. Anche in questo caso il lavoro di ricerca non è stato indifferente. Il linguaggio era piuttosto tecnico e le nozioni non erano così semplici e immediate. Come di consueto ho creato il mio glossario e cercato di interiorizzare il più possibile termini e concetti.
 
Giusto qualche mese dopo, durante una trattativa sento inaspettatamente pronunciare da uno dei clienti la sigla SKU, al sentirla pronunciare ho proprio sorriso: era uno dei termini che avevo incontrato nella preparazione del corso per la società di logistica e dunque sapevo perfettamente a cosa facesse riferimento. Per inciso, la sigla indica il codice identificativo di un articolo gestito a magazzino.   

 

Questo episodio è stato proprio la prova che insegnare non corrisponde affatto a quell’idea che avevo di lavoro statico e poco stimolante.

 
Anzi, permette di conoscere realtà nuove, di cercare sempre stimoli e fonti da cui attingere vocaboli, tecniche e metodi. Non esistono “cose inutili” e anche la preparazione di una semplice lezione di conversazione, può rivelarsi fondamentale, perché è sempre un’occasione per imparare un vocabolo nuovo, conoscere un aspetto culturale che non si conosceva, rispolverare qualcosa di cui forse si ha un vago ricordo che risale ai tempi del liceo.
 
A conclusione del mio articolo quindi vorrei citare il filosofo francese Joubert, con cui non posso che essere d’accordo: insegnare è imparare due volte.