Autore: Francesca Calabrò
L’astrusa lingua della burocrazia: invisa a tutti, usata da troppi
Il governo arruola la Crusca: basta burocratese
«Le faccio un esempio: chi riempie il modulo per il passaporto di un minore sa sempre cosa significa “essere a conoscenza dei motivi ostativi previsti dalla legge 1185 del 1967”?». Temo di no. «Anche io. E invece dobbiamo metterci nei panni di chi quel modulo lo deve riempire»
Fabiana Dadone, ministra per la pubblica amministrazione.
Come hanno riportato diverse testate giornalistiche e siti web nei giorni scorsi, lunedì 17 febbraio 2020 la ministra della Pubblica amministrazione Fabiana Dadone ha incontrato a Firenze il presidente dell’Accademia della Crusca, Claudio Marazzini.
Scopo dell’incontro era quello di siglare un protocollo d’intesa che sugellasse l’inizio di un programma di studio e promozione volto a favorire una comunicazione corretta e chiara in ambito istituzionale. L’accordo ha dato vita infatti a una collaborazione tra le due istituzioni, nel mutuo intento di rendere più chiaro, leggibile e semplice il linguaggio della P.A.
Ecco le dichiarazioni della Ministra Dadone a tal proposito:
«La pulizia del linguaggio normativo, la chiarezza dell’esposizione da parte delle amministrazioni, la semplicità della narrazione delle scelte e delle decisioni della politica: non stiamo parlando di meri orpelli o di vacui esercizi di stile. Siamo piuttosto di fronte a un’esigenza fondamentale per istituzioni che vogliano davvero mettere al centro il rapporto con i cittadini e le prerogative del Paese reale.
Nell’oscurità della lingua può annidarsi semplice sciatteria, scarsa sensibilità professionale oppure l’idea distorta di un potere da preservare gelosamente, che significa spesso abuso o che comunque segnala un deficit di partecipazione democratica. La preziosa collaborazione con l’Accademia della Crusca, da cui scaturisce questo Protocollo d’intesa, ci consente di leggere e interpretare correttamente l’evoluzione della lingua delle pubbliche amministrazioni e di migliorare sempre di più il modo in cui scriviamo le regole del gioco o raccontiamo, da rappresentanti delle istituzioni, quello che facciamo».
Nell’ambito di questo protocollo, saranno organizzati diversi corsi di aggiornamento e si elaboreranno linee guide e buone prassi in tema di semplificazione, chiarezza e omogeneità dei testi delle pubbliche amministrazioni, da diffondere e promuovere tra coloro che operano nella redazione di testi ufficiali.
Un primo contributo messo a punto ancor prima della firma dell’accordo, e già liberamente consultabile, è la prima Guida al linguaggio della Pubblica Amministrazione.
Si tratta di un documento diviso in tre parti:
La prima contiene un glossario dei termini più ricorrenti nei servizi pubblici, la seconda offre spunti e suggerimenti di scrittura, strutturazione a impaginazione dei contenuti, mentre nell’ultima troviamo una guida sul tono di voce da utilizzare nei siti internet della Pubblica Amministrazione, a seconda delle attività, dell’identità dei lettori e delle esigenze dei cittadini.
È uno strumento pratico, in cui, ad esempio, si riportano le parole da usare e quelle che, viceversa, andrebbero bandite.
Ed ecco che anziché ricorrere a termini come “abrogazione, adempimento, alienazione, ammenda, erogare” si consiglia di utilizzarne di altri maggiormente comprensibili, come “eliminazione, raggiungimento, vendita, multa, fornire”, oltre che di evitare gli anglismi non necessari, come “best practice”, “feedback”, “mission”, “guideline”, ecc.
Le peculiarità del linguaggio giuridico amministrativo
Ma come mai si rimprovera al linguaggio delle istituzioni di essere così criptico? Quali sono le caratteristiche che lo rendono tale?
Come recita l’enciclopedia Treccani, «il linguaggio giuridico amministrativo è il linguaggio settoriale di cui sono tipicamente costituiti i testi prodotti in campo giuridico: testi normativi, come leggi, decreti, regolamenti; testi applicativi in ambito processuale, come sentenze, ricorsi, e amministrativo, come ordinanze, certificati; testi interpretativi, come monografie, articoli in riviste specialistiche.»
Si tratta dunque di un contenitore dentro cui confluiscono una serie di testi con destinatari, funzioni e caratteristiche anche molto diversi fra loro.
Se volessimo però riassumerne i tratti più salienti potremmo dire che, in linea generale, il linguaggio giuridico-amministrativo si contraddistingue in generale per periodi lunghi e complessi, in cui abbondano proposizioni subordinate, incisi, tecnicismi specifici (come “abigeato”) o collaterali (come “elemento probatorio”, al posto di “prova”, “acquisire in atti”, al posto di “archiviare”, e così via), e quelli che Mortara Garavelli chiama ridefinizioni, ossia vocaboli presi in prestito dal lessico comune che assumono però un significato nuovo, settoriale e specifico (come “vizio”, “confusione”, “affini”, “dispositivo”).
Ma non è tutto
I testi giuridici poi fanno spesso ricorso alla diatesi passiva, alla forma impersonale (“si ordina”, “si invitano”), all’enclisi (“fittasi”, “comunicasi”), al “questo tribunale osserva che”, alla nominalizzazione e ad altri espedienti linguistici finalizzati a nascondere il soggetto e/o l’oggetto dell’azione, rendendo il tutto volutamente impersonale.
Il risultato è che si viene a creare una distanza rispetto alla lingua comune, a volte eccessiva, che finisce per creare un divario insormontabile tra colui che padroneggia determinati concetti e ha familiarità anche con i costrutti morfo-sintattici più arzigogolati (il funzionario che redige l’atto) e il cittadino che fatica o non riesce a decifrarli, finendo per travisarne il contenuto o per arrendersi all’impossibilità di comprendere.
L’annosa battaglia contro il burocratese: l’antilingua di cui parlava Italo Calvino
Molti di voi ricorderanno il celebre articolo di Italo Calvino Per ora sommersi dall’antilingua, pubblicato su «Il Giorno» nel 1965.
Nell’incipit, un brigadiere incaricato di redigere il verbale di una denuncia per furto trasforma termini o espressioni percepiti come troppo colloquiali e popolari in altri termini e locuzioni di registro più “aulico”, ma dal significato decisamente più ambiguo, e alle volte del tutto oscuro.
Ed ecco che “cantina” diventa “scantinato”, “fiaschi di vino” viene sostituito da “prodotti vinicoli”, al posto di “accendere la stufa”, scrive “eseguire l’avviamento dell’impianto termico”, fino all’esilarante “recipiente adibito al contenimento del combustibile” in sostituzione di “cassa del carbone”, con un effetto surreale che ben illustra l’esito di un vero e proprio scollamento dalla realtà.
«[…] Perciò dove trionfa l’antilingua – l’italiano di chi non sa dire “ho fatto” ma deve dire “ho effettuato” – la lingua viene uccisa.»
Lo scrittore ligure si era già scagliato dunque contro questa lingua artificiosa, sciatta e contorta, frutto dell’errata convinzione che il modo migliore per far trasparire decoro e formalità (requisiti dei documenti ufficiali) sia quello di bandire i termini di uso comune, costruendo testi infarciti di espressioni pompose, astratte e incomprensibili.
Nel corso degli anni Sessanta e Settanta, poi, sono stati in molti a sottoscrivere queste premesse e a criticare il modo di scrivere in uso nella pubblica amministrazione, arrivando a coniare dei neologismi manifestamente dispregiativi come “burolingua” e “burocratese”.
Del resto quello della Ministra Dadone è solo l’ultimo di una lunga serie di tentativi di riformare il linguaggio amministrativo, portati avanti da governi di diverso colore (citiamo, ad esempio, il Codice di stile del 1993, e Regole e suggerimenti per la redazione dei testi normativi, un manuale approvato nel 2008 dalla Conferenza dei Presidenti delle Assemblee legislative delle Regioni e delle Province autonome).
Plain English vs. Legalese: una diatriba analoga nel mondo anglofono
Abbiamo visto come la protesta contro il linguaggio burocratico è tutt’altro che recente.
Chi, come me, ha a che fare quotidianamente per lavoro con la lingua anglosassone, in particolare con i testi legali scritti in inglese, sa che il dibattito nel merito non è certo una prerogativa della lingua italiana, anzi.
Nel blog euroterminologia, Manuela Capri ci racconta che fu Geoffrey Chaucer a coniare nel Trecento l’espressione Pleyne Englishe, volendo indicare un “linguaggio diretto, senza ornamenti”. L’intento dello scrittore inglese era in realtà quello di promuovere l’uso di parole inglesi brevi e di origine anglosassone, anziché quelle di origine latina e francese importate da Guglielmo il Conquistatore.
Da alcuni decenni a questa parte, nel mondo anglosassone è nato un vero movimento a favore di una lingua “piana”, lineare e semplificata.
Che cos’è il Plain English, in cosa si differenzia dal Legalese e quali sono le istanze formulate dai sostenitori del Plain English/Plain Language Movement?
Il Plain English Movement (letteralmente “movimento a favore di un inglese piano”) è nato a metà degli anni Settanta, nello specifico negli Stati Uniti.
Fu allora che una fetta crescente della popolazione si rese conto che la lingua utilizzata dagli avvocati americani, il cosiddetto Legalese, era troppo arcaica e troppo complessa sotto il profilo morfo-sintattico, e che praticamente solo gli addetti ai lavori erano in grado di comprenderla, risultando assolutamente arcana per il cittadino comune, che però a quelle leggi e a quegli atti giuridici redatti da altri era tenuto a conformarsi.
Poco a poco, quello che era nato come un movimento informale e spontaneo si è diffuso e consolidato sempre di più, suscitando diversi gradi di acclamazione, in tutti i paesi anglofoni.
Sono fioccate così una serie di iniziative, campagne, linee guida, manuali pubblicati da editori di rilievo (come la Oxford Guide to Plain English) e, in alcuni casi, si è arrivati a promulgare delle leggi che impongono l’utilizzo di una lingua legale semplificata, per lo meno per determinati atti rivolti ai privati (prime fra tutte le polizze assicurative).
Negli Stati Uniti questa battaglia ha riscosso più successo che in altre nazioni anglofone, tanto da arrivare a consacrarne i capisaldi con una legge federale ad hoc, il Plain Writing Act del 2010.
Le istanze dei fautori del Plain English
Senza dilungarci troppo nel merito, possiamo racchiudere la battaglia dei paladini del Plain English in un’unica parola d’ordine: semplificazione.
Una semplificazione che passa per l’eliminazione non dei termini tecnici imprescindibili (i tecnicismi specifici di cui abbiamo parlato prima) ma di tutte quelle formule arcaiche, spesso di origine latina o francese, e di quei costrutti morfo-sintattici antiquati che un lettore medio non è in grado di decifrare con semplicità.
Ecco una piccola tabella con alcuni esempi
Legalese | Plain (Legal) English | Proposte di traduzione (senza pretesa di esaustività) |
Hereinafter | Below | “di cui sotto”, “infra”, “riportato qui sotto” |
By virtue of | Under | “in virtù di”, “ai sensi di” |
As a consequence of | Because | “a causa di”, “per effetto di” |
Commence (to) | Start/Begin (to) | “cominciare”, “iniziare” |
Alter and change (to) | Change (to) | “modificare” |
A colpo d’occhio, notiamo subito che, quelle che per gli anglosassoni vengono percepite come parole auliche, arcaiche, desuete, per chi è di madrelingua italiana sono invece di più facile e immediata comprensione, proprio grazie all’origine latina o francese del termine.
Ma è pur vero che l’accostamento di due o tre sinonimi, come “indemnify and hold harmless”, “alter and change”, “rest, residue and remainder” (i cosiddetti Legal pairs/triplets, rispettivamente), l’uno di derivazione francese/latina, l’altro di origine anglosassone, che secoli addietro serviva proprio a garantire che tutti, popolo inglese e aristocrazia normanna, ne comprendessero il significato, oggi può risultare sicuramente fuorviante e indurre in errore (anche i traduttori non specializzati nel settore legale), proprio come i periodi troppo lunghi, la voce passiva e le espressioni superflue.
Cosa dovremmo concludere quindi?
Possiamo dire dunque che sia il Plain Language Movement sia le iniziative analoghe in terra nostrana sono mossi da uno stesso intento: sfrondare la lingua (del diritto e delle amministrazioni pubbliche) di tutto il superfluo (la forma), conservando l’essenziale (il contenuto), a beneficio del cittadino comune.
Condivido appieno tutte queste istanze e ritengo giusto che lo Stato e i funzionari pubblici non utilizzino la lingua come uno strumento di potere a discapito dei cittadini, ma credo sia importante non cadere nell’esagerazione.
A mio avviso, la semplificazione non deve tradursi in un impoverimento della nostra lingua, né dal punto di vista lessicale (è vero, per esempio, che il termine “multa” è molto più conosciuto di “ammenda”, ma possono essere usati come sinonimi solo in contesti non specialistici, perché per il codice penale italiano non sono la stessa cosa), né dal punto di vista sintattico.
La lingua italiana ci consente di fare ricorso scientemente all’ipotassi (più conosciuta, per l’appunto, come “subordinazione”), per strutturare e argomentare al meglio le nostre tesi (per questo, a mio parere, sarebbe impensabile e utopistico aspettarsi di leggere sentenze o memorie difensive composte per lo più da frasi brevi e proposizioni coordinate), senza che ciò significhi necessariamente creare periodi involuti e incomprensibili.
Da amante della lingua e del diritto, mi sento di dire che latinismi e formule rituali non sono da demonizzare a priori.
Un aforisma che per me spiega bene il perché è quello attribuito al filosofo Bernardo di Chartres: “siamo nani sulle spalle di giganti”, che sottolinea che i traguardi del presente sono possibili solo grazie a tutto quello che è stato scoperto, inventato e pensato nel passato e, dunque, anche grazie ai giuristi delle epoche antiche, in primis i romani, che per primi hanno codificato il diritto e che ci hanno lasciato in eredità un patrimonio anche linguistico, che non sempre possiamo, né dobbiamo, semplificare.
Non dobbiamo dimenticarci infatti che, come ho imparato da Luca Lovisolo, ricercatore di diritto e relazioni internazionali e docente del corso Il diritto per tradurre, «nel diritto il linguaggio non descrive, ma costituisce» (sulla falsariga del concetto di atto performativo elaborato dal linguista Austin).
In un’epoca in cui tutto è a portata di clic, anche le voci dei migliori dizionari, sarebbe un vero peccato se, per pigrizia, peccassimo di un’ottusità opposta (ma simile) a quella del brigadiere di Calvino, e finissimo per non scontrarci più con parole che non conoscevamo prima.
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