Autore: Fulvio NovìEnglish translation: Fabiana Grassi
Traduction en français: Federica Bonapace

 

Una delle domande più frequenti che mi vengono poste dopo aver tradotto in simultanea è “ma come fate voi interpreti a tradurre subito all’istante? È una cosa difficilissima!”. L’ultima volta che mi sono trovato a rispondere a questa domanda, ne ho approfittato per parlare brevemente di cosa, secondo alcune ricerche, succede al cervello degli interpreti simultaneisti.

 

Prima di citare queste ricerche, però, vorrei parlare brevemente del processo mentale che noi interpreti eseguiamo mentre traduciamo in simultanea.

 

Questo processo si può scomporre nelle seguenti fasi:

 

  1. Ascolto: l’interprete ascolta quello che viene pronunciato dall’oratore straniero.
  2. Analisi e comprensione: il messaggio in entrata viene analizzato e compreso nel modo più completo possibile, considerando non solo e non tanto le parole quanto il senso del messaggio, comprese le informazioni relative a tono di voce e contesto.
  3. Formulazione mentale della traduzione: l’interprete pensa a una possibile traduzione.
  4. Produzione della traduzione: l’interprete pronuncia la traduzione pensata, è in questo momento che la sua voce si sovrappone a quella dell’oratore.
  5. Controllo della propria traduzione: visto l’elemento di disturbo rappresentato dalla voce dell’oratore mentre si traduce, è fondamentale che l’interprete ascolti in tempo reale la propria traduzione, per assicurarsi di pronunciare bene le parole e per essere sempre pronto a correggere eventuali errori “in corsa”.

 

A queste 5 fasi io ne aggiungerei un’altra anche se non è propriamente una fase sequenziale (neanche le altre lo sono in realtà, ma su questo torneremo tra un attimo).

 

Sto parlando della memoria a brevissimo termine.

 

Come prevedibile, e come forse vi sarà capitato di notare sentendo qualche interprete in TV, a volte l’interprete rimane un po’ indietro rispetto all’oratore per una serie di motivi (necessità di ulteriore analisi, differenze di struttura sintattica tra le lingue etc.) e, quando questo succede, l’interprete attiva la propria memoria a brevissimo termine, una sorta di cassetto di emergenza in cui riporre alcune informazioni che poi andrà ad “attaccare” al discorso in un secondo momento.
Questa è un’attività costante che l’interprete esegue durante ogni simultanea.

 

In realtà, come accennato, le cinque fasi sopra descritte non avvengono mai in modo sequenziale, ma simultaneamente. Del resto, se così non fosse, l’interprete rimarrebbe sempre indietro, non riuscendo a fornire il servizio.
Lo sforzo e la difficoltà derivano proprio dal fatto che queste 5 operazioni vengono eseguite tutte insieme in pochissimi secondi in un ciclo continuo.
Per dirla in maniera un po’ semplicistica e brutale, io, quando sono in cabina, non saprei certo dirvi se sto eseguendo la fase uno o la fase tre. Più semplicemente, grazie allo studio e alla capacità di adattamento del cervello umano, questa attività è diventata un automatismo.

 

Cosa dice la scienza in merito?

 

In realtà non sono moltissimi gli studi che cercano di capire come funzioni il cervello di un/una interprete durante una simultanea. Tempo fa, però, BBC pubblicò un interessante articolo (originariamente apparso su Mosaic) in cui si cercava di far luce sul tema.

 

Nell’articolo si parla soprattutto degli studi condotti presso l’Università di Ginevra secondo i quali una delle aree del cervello più importanti per la simultanea è il nucleo caudato.
Si tratta di una parte del cervello già nota ai neuroscienziati per il ruolo svolto nel prendere decisioni ed è legata alla fiducia.
Quindi sostanzialmente siamo di fronte a una sorta di direttore d’orchestra che coordina le attività di diverse zone del cervello per consentire l’esecuzione di compiti e comportamenti complessi.

Gli studi più recenti nell’ambito delle neuroscienze hanno fatto emergere chiaramente che le abilità più complesse degli esseri umani sono rese possibili non da aree del cervello specializzate, ma avvengono perché il cervello dispone di una rapidissima capacità di coordinamento tra aree che controllano compiti più generici come il movimento e l’udito. Pare, quindi, che l’interpretazione simultanea sia un’altra meraviglia possibile grazie alle straordinarie capacità di collegamento tra le varie aree del nostro cervello.  

 

Per capire meglio, i ricercatori dell’Università di Ginevra hanno deciso di affidarsi alla risonanza magnetica funzionale per osservare il cervello degli interpreti simultaneisti.
In questo modo è possibile vedere quali aree del cervello si attivano mentre si traduce. Una di queste è l’
area di Broca, una zona che ha un ruolo nella produzione linguistica e nella memoria di lavoro, un tipo di memoria legata non solo alla memoria a breve termine, ma anche alle capacità di ragionamento e di pensiero astratto. In ultimo, vale la pena sottolineare che questa area è collegata con le zone vicine che aiutano a controllare la produzione linguistica e la comprensione.

 

L’area di Broca, però, non è l’unica parte del cervello coinvolta.

 

Nel corso dell’osservazione, gli scienziati hanno notato altre parti del cervello attive con tantissime connessioni tra di loro.

Per esempio, nel corpo striato, ci sono due zone coinvolte: il nucleo caudato, di cui ho parlato poc’anzi, e il putamen. Chi si occupa di neuroscienze sa che queste due parti del cervello sono coinvolte in compiti complessi tra cui l’apprendimento e la pianificazione dell’esecuzione dei movimenti. Questo significa, come scritto anche sopra, che non c’è una sola area che si occupa dell’interpretazione simultanea, ma sono più parti del cervello che lavorano all’unisono per renderla possibile.

 

Per capire ancora più in profondità, i ricercatori hanno deciso di monitorare l’attività di alcuni studenti prima all’inizio dei loro studi e poi dopo un anno, in modo da capire se ci fossero stati dei cambiamenti nel funzionamento del cervello.

 

Tra l’altro alcuni di questi studenti a 12 mesi di distanza avevano poi rinunciato a studiare interpretazione, quindi l’esperimento si è rivelato ancora più interessante per cogliere eventuali differenze.

Inizialmente, agli studenti è stato chiesto di ripetere quello che sentivano in cuffia nella stessa lingua (un esercizio propedeutico alla simultanea chiamato shadowing) e poi in una seconda fase il compito era quello di riflettere sul significato della frase, pensare a una possibile traduzione e pronunciarla a voce: in sostanza veniva loro chiesto di interpretare in simultanea.
Ebbene, all’inizio dell’anno, i ricercatori hanno notato che non c’è stata un’attivazione massiccia di aree del cervello: solo alcune di queste erano coinvolte nell’esecuzione del compito e si trattava di aree che controllano il movimento come la corteccia premotoria e il nucleo caudato.

A un anno di distanza, negli studenti che avevano effettivamente iniziato a studiare interpretazione di conferenza, si è notato un cambiamento netto rispetto a quelli che avevano deciso di studiare altro.

Più in particolare, nel cervello degli studenti con un anno di interpretazione alle spalle si è visto che il nucleo caudato destro veniva attivato meno rispetto a quanto rilevato un anno prima. Questo ha portato gli scienziati a pensare che a mano a mano che gli studenti acquisiscono più esperienza il nucleo caudato viene attivato di meno, perché il cervello si è in qualche modo adattato per consentire di tradurre in simultanea facendo meno fatica.

I neuroscienziati poi si sono soffermati sul fatto che il nucleo caudato, coinvolto in tantissime attività umane, è legato non tanto all’esecuzione di un compito, ma soprattutto sul perché di una certa azione. E, in effetti, gli interpreti non traducono mai le parole, ma si interrogano costantemente sul messaggio, sul suo senso profondo e cercano di trasmettere questo senso profondo, sempre in allerta e sempre vigili sia su quanto dice l’oratore sia sul proprio operato.

 

Per concludere, cito brevemente un altro studio, comparso su PLOS ONE, in cui si è cercato di capire come gli interpreti utilizzano la memoria di lavoro nel corso di una simultanea.

 

In sostanza, è emerso che gli interpreti adottano un approccio dinamico e si adattano per fare i conti con risorse limitate. In altre parole, più informazioni immagazzinavano nella memoria di lavoro (il “cassetto” di cui parlavo a inizio articolo), più la qualità dell’interpretazione calava. Questo risultato non sorprende, visto che se gli interpreti devono memorizzare più informazioni più a lungo avranno meno risorse mentali da destinare ad altri aspetti (la qualità e il controllo dell’output per esempio).

 

In conclusione, personalmente non vedo l’ora che il mondo della scienza indaghi ancora più in profondità per capire meglio i misteri che si celano dietro alla simultanea, ma da questi primi studi emerge chiaramente che, comprensibilmente, si tratta di un’attività complessa che, per essere svolta al meglio, richiede un adeguato percorso formativo, la necessità di interpreti professionisti specializzati in vari settori e una proficua collaborazione tra interpreti e clienti, in modo da ridurre al minimo lo sforzo cognitivo una volta acceso il microfono. 

 

 

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